Vengo da un posto piccolo. Un paesino arroccato, circondato da campagne e vulcani addormentati. Esposto a nord, dà le spalle al mare. Da lontano hai l’impressione di poterlo tenere in una mano, ma quando lo attraversi, ti contiene e non sai come guardarlo. Si chiama Artena.
Non è carrabile, devi arrampicarti per arrivarci, e quando ci arrivi, non ti accoglie. Ci entri lasciandoti alle spalle una foresta. Se non ci sei nato, la prima domanda che ti viene posta è A chi renni, di chi sei figlio. Io sono trent’anni che mi sento figlia sua, dei suoi ciliegi, della sua roccia, dei suoi strapiombi, del suo isolamento, del suo silenzio, delle querce, della sua ferocia, del suo tesoro di storie e persone. Una sola volta in vita mia ho avuto paura di non riuscire più a tornarci, ma mi sbagliavo.
Artena è uno di quei posti a cui puoi dare facilmente la colpa della malinconia che ti porti dietro, del tuo carattere spigoloso, dei pregiudizi che hai incorporato, degli aerei che hai perso, dei treni che prendi, delle vite che non hai vissuto, delle cose che hai fatto succedere e che senza di te non sarebbero successe, delle volte che invece hai ceduto, del tuo cuore che, una volta spalancato, non si richiude.
Perciò quando ho letto Le case del malcontento di Sacha Naspini, edizioni E/O, mi sono sentita come dentro una musica familiare, e ho ballato. Ho bevuto le sue 458 pagine facendo un unico, lungo sorso. Mi sono fatta riportare a casa.
Ma poi mi è venuta la curiosità di sentire l’autore per interrogarlo: Le case esiste davvero? (Sì). E lui ci ha vissuto? (Sì). E anche lui ha un rapporto complicato con la provincia? (Sì). E anche per lui i luoghi non sono innocenti? Potrete scoprirlo da voi leggendo di seguito le risposte che mi ha dato.
Per avere un’altra prospettiva sull’opera, ho intervistato anche Claudio Ceciarelli, l’editor E/O che ha curato il libro. Mi ha raccontato come hanno lavorato, e che fortuna è stata.
Dove hai vissuto, e dove hai scritto Le Case del malcontento?
Sacha Naspini: Ho vissuto lì (il posto esiste, si chiama Roccatederighi). E a San Francisco. E a Parigi. E nei deserti sterminati d’America. E in un decimetro di me che tanto posso andare ovunque, ma m’avvelena il sangue lo stesso, anche a centomila galassie da qui. Il libro l’ho scritto in una casa, sulla costa di Maremma. Mi chiamava forte, specie su una certa vena. Un giorno andai in doccia, dopo il mare. E lo vidi. E lo presi (credo). Conservo un fotogramma esatto di quel momento.
Cosa leggevi e ascoltavi mentre scrivevi? Quali libri, articoli, riviste? Quali dischi?
SN: Non volevo scrivere un libro su un ragazzina morta di cui il lettore doveva scoprire la verità. Non mi interessava una cosa che facesse solo dire: “Come va a finire?”. Il viaggio importante doveva essere altrove. Leggevo Tibor Fischer. Donald Ray Pollock. Fenoglio. Ascoltavo Guccini, i Ministri. The National. Gli Iron, ovvio. Bruce. Johnny Cash. Pearl Jam. Paradise Lost. Potrei andare avanti all’infinito. Leggevo tutti i giornali, o quasi. Ero molto acceso. E cercavo una linea sovversiva. Un giorno, con la prima bozza in mano, la mia agente mi chiese: «Se tu dovessi scegliere, a chi vorresti darlo?». Risposi secco: «E/O». Potete non crederci. Chi mi conosce sa che è così. Poi E/O mi ha letto.
Che rapporto hai con la provincia?
SN: Brutto. Bello. Tremendo. Mi scanna, ma m’individua. Lo capisco soprattutto quando sono dall’altra parte del mondo; una matrice s’impenna, mi chiama. È insieme un’uggia e un tesoro. Forse un pezzo della mia narrativa sarà sempre marcata da quella violenza. Che è bellissima, perché è un solco forte, un virus. Lo prendo e lo do nelle pagine, a urto. Come quando scoppia la porta per via del riscontro, e perdi dieci anni di vita. Se lo scrivere fa così (nel bene e nel male) vivo meglio. Dico da lettore. Quella roba che accade in Roth, per esempio. O nella Kristóf. Guardo certi Picasso e un posto di me diventa diverso. Insomma: rovesciami il pavimento e vado nel panico creativo. Fammi vedere che un certo oggetto può avere un’altra faccia. La provincia in questo senso è oro. La provincia è ovunque. Si affolla sulla strip di Las Vegas. Sulla Broadway. Tracima in via dei Condotti, a Roma. È sul pianerottolo di casa tua. Ce l’hai nel pdf di te stesso mentre appoggi il gomito sul bancone del bar per chiedere un caffè basso, decaffeinato. Macchiato freddo. Corretto Sambuca. Con l’ombrellino. E lo zucchero alla criptonite c’è’?
Le Case è un posto dove “il niente straripa dalle strade”. Questo niente intrappola chi lo vive, e quelli che riescono ad andar via tornano sconfitti. È un posto a cui i suoi abitanti attribuiscono una colpa, lo ritengono responsabile delle loro occasioni mancate. Leggendolo, mi è venuta voglia di fare con te un ragionamento sull’innocenza dei luoghi.
SN: I luoghi sono belve. Ti incidono, specie nel brutto – dico questo perché è su quel versante che devi fare i conti; c’è anche l’istinto luminoso, certo, non si deve piangere e basta. La geografia esterna contamina quella interna e viceversa. Le Case è una scacchiera del genere. Torno a dirlo: tenendo fermi i tiranti di base, potremmo pensare quelle dinamiche a New York. A Calcutta. A Russi, Emilia Romagna; considerando la voce, la vocazione al vivere di una terra (in questo caso la mia). Se le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli, i batteri del luogo ti vanno nel sangue e basta.
Ci descrivi qual è, per te, la migliore condizione fisica e mentale per scrivere?
SN: È dolcissimo Stephen King: in quasi tutti i libri ringrazia Tabitha. Per me è cruciale una condizione psicofisica centrata, anche se intorno ho i terremoti. Mi devo sentire. Ma sono banalità, immagino sia per tutti così. Con la testa in alto mare volo allo sbando, non incido. E l’Io disturbante è sempre lì, ti aspetta al varco, con il rischio di farti deragliare nella zona egoriferita: neanche te ne accorgi, e ti ritrovi a mettere in pagina come per andare in scena a tutti i costi. A me serve il silenzio. La sospensione. Infatti scrivo di notte, quando il bestiame umano si riposa, non urla, non parla, non fa rumore. Compreso me.
Come arrivi a una scrittura così asciutta, forte, visiva?
SN: La domanda contiene un complimento stupendo, grazie. Dovessi dirlo in parole povere, proverei così: liberarmi, al di là delle opinioni strette, delle tendenze. In alcuni casi ho sentito un tocco schiacciante, anche da editor meravigliosi, come se stessero cercando di mettermi su un binario: gratitudine a fiumi, ma su certi orizzonti esisto malvolentieri. Tanto se non mi riconosco non arrivo. Se mi tradisco, perdiamo tutti del tempo prezioso. Scrivere è semantica, immagini, gorgoglio del non detto e tutto il resto. È cura. Onestà. L’intrattenimento è l’ultima cosa che cerco, specie da lettore. Ho sempre apprezzato il gesto di qualcuno che mi arriva addosso spaccandomi l’osso del collo a tradimento, per farmi guardare da un’altra parte. O che mi scaraventa di colpo giù dal costone, mentre me ne vado tranquillo per la mia strada. Nella musica e nei film è più diretto (non intendo più facile). Le pagine belle che cerco sono come carezze ruvide: ti spellano, fanno la crosta. Poi casca, e resta un segno.
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Come descriverebbe la scrittura di Naspini? Qual è, secondo lei, la sua più grande capacità?
Claudio Ceciarelli: Definirei quella di Naspini una “scrittura-mondo”, nel senso che riesce in maniera davvero mirabile a costruire, pagina dopo pagina, un universo in sé coerente fatto di stilemi di sedimentazione talvolta addirittura secolare, ma strutturalmente aperto agli influssi della contemporaneità. Il tutto senza ricorrere – e qui sta secondo me la scommessa più grande, assolutamente vinta – all’uso diretto di lemmi dialettali o di sintagmi semplicisticamente mutuati dal parlato e trasferiti di peso, meccanicamente, sulla pagina scritta. No, Naspini assorbe, metabolizza e restituisce al lettore un “parlato” che risulta inconfondibilmente connotato dal punto di vista geografico (la Maremma toscana), ma evitando coloriture fini a se stesse e strizzatine d’occhio a qualunque forma di folclore linguistico.
Il risultato è una lingua letteraria ma al tempo stesso organicamente connessa alla cultura popolare, alta e bassa al tempo stesso, in questo senso di matrice addirittura scespiriana, oserei dire.
Come avete ottenuto un impianto così solido e una così grande precisione stilistica?
CC: Qui mi corre l’obbligo di essere assolutamente onesto: l’impianto “così solido” è farina esclusiva del sacco dell’autore, che rispetto alla prima stesura del romanzo – una sorta di diario tenuto da Samuele Radi, il giovane che con il suo ritorno al borgo di Le Case è il “motore narrativo della storia” – ha avviato una lunga riflessione su ciò che questa scelta iniziale lasciava fuori rispetto a quanto l’autore stesso voleva trasmettere e raccontare al lettore.
Si è trattato quindi di un percorso del tutto autonomo e personale, condotto da Naspini in solitario, solo alla fine del quale si è sentito davvero pronto per presentare Le Case del malcontento a un editore.
In sostanza, non sono intervenuto in nessun modo nella struttura del romanzo, mi sono limitato a svolgere un ruolo di “coscienza critica”, accompagnando Naspini nel lungo e laborioso processo di verifica di quanto – rispetto alle intenzioni iniziali – potesse arrivare al lettore col minimo di interferenze “altre”, di rumori di fondo non necessari, di contraddizioni grandi o piccole rispetto allo statuto del romanzo dall’autore stesso concepito.
Insomma, ho fatto quello che secondo me dev’essere il lavoro di un editor: mettersi pienamente al servizio del romanzo, senza preclusioni o pre-giudizi di sorta, senza portarsi dietro personali idee sulla letteratura, sulla lingua, sullo stile da applicare estrinsecamente all’opera in questione. Un lavoro maieutico, di “coscienza critica” come dicevo prima: aiutare l’autore a essere coerente con se stesso, renderlo pienamente consapevole del risultato, indurlo a essere il critico più lucido di se stesso.
Spero, e credo, di esserci riuscito.
Ci racconta a grandi linee come vi siete “incontrati” e come avete lavorato?
CC: L’incontro con Sacha è avvenuto a seguito di una serie di “incastri” felici: un agente letterario, Silvia Brunelli, che – consapevole di quello che aveva per le mani – sceglie di concerto con l’autore di non proporre Le Case del malcontento a uno dei soliti colossi editoriali, ma a una casa editrice indipendente da sempre attenta alla qualità; un editore, Sandro Ferri, bravo a riconoscere subito la genuinità della “pasta” di cui è fatto il libro; un editor, il sottoscritto, che dopo trent’anni di questo lavoro è per sua fortuna ancora capace di grandi entusiasmi.
A cosa sta lavorando adesso, se possiamo chiederglielo?
CC: In questo momento ho appena concluso l’editing di Qual è la via del vento, di Daniela Dawan, un bel romanzo che racconta un ambiente e un momento di storia recente finora poco esplorati dalla narrativa italiana (la situazione della comunità italiana a Tripoli al momento della cacciata dalla Libia da parte di Gheddafi); e sto per dedicarmi al prossimo libro di Caterina Emili, L’innocenza di Tommasina, che segue Il volo dell’eremita, pubblicato da E/O nel 2016.