Dura lex sed lex è un’espressione, coniata dal filosofo Socrate, utilizzata per invitare l’uomo a rispettare la legge anche nei casi in cui questa fosse rigida e rigorosa.
Questo principio, però, spesso e volentieri cozza con il concetto di giustizia che, trasposto ai giorni nostri, non sempre permette un pieno riconoscimento del danno subito dalla violazione.
Facendo propria questa visione, Massimo Carlotto presenta l’impalbabile confine tra la legge e la giustizia nel suo L’oscura immensità della morte (edito E/O, 2005) in cui tende ad evidenziare tanto le falle di un sistema giudiziario spesso incurante di alcuni particolari importanti quanto il limite invalicabile che tramuta la vittima in carnefice.
Attraverso una storia appassionante e controversa, infatti, L’oscura immensità della morte mette a nudo la moralità costruita da ogni singola persona – che attraverso le proprie azioni tenta di implementare la pena inflitta da un’autorità – e, allo stesso tempo, la debolezza di vittima e carnefice di fronte alle conseguenze delle proprie azioni.
La trama del romanzo, che si articola in una sorta di doppia visione illustrata dai due protagonisti, narra le vicende di Raffaello Beggiato – condannato all’ergastolo dopo una rapina ed affetto da un tumore allo stadio terminale – e Stefano Contin, marito di Clara e padre di Enrico uccisi dallo stesso Beggiato nel corso del crimine citato.
La vita dei due, fino a quel momento monotona e legata ad opprimenti routine giornaliere – cosa che accomuna la loro esitenza, così come tanti altri aspetti – , viene scossa dalla richiesta di grazia di Beggiato, a seguito della scoperta del male, e dall’opinione di Contin sul provvedimento.
Parte quindi una partita a scacchi complessa e a tratti spietata, in cui i protagonisti non risparmiano colpi bassi e strategie al limite della moralità.
Il lavoro di Carlotto, come sempre struggente e con una visione critica della nostra realtà, si rende degno di nota per alcuni elementi che lo proiettano di diritto tra i big della scrittura di genere.
Il primo grande elemento, che emerge con forza sin dal principio, è quello inerente il rapporto tra legge e giustizia.
In questo caso l’autore da un lato considera l’aspetto prettamente giuridico, che si limita ad imporre una specifica visione dei fatti, e dall’altro l’incapacità di giungere ad una sorta di risarcimento morale verso chi ha subito il torto.
La visione in questione, che viene ripresa più volte nelle due situazioni considerate, porta direttamente ad un secondo punto in cui i protagonisti diventano, in base alla narrazione, vittima e carnefice.
Attraverso un continuo scambio di ruoli fra Beggiato e Contin, difatti, si tende ad evidenziare come un sistema basato sulla ricerca del colpevole ad ogni costo genera un circolo vizioso senza alcuna fine e, contemporaneamente, una serie di gravi conseguenze che portano all’applicazione di un tipo di giustizia basata esclusivamente su una visione personale.
Infine, ciò che emerge con maggior forza da tutto lo scritto, è senza dubbio la critica ad una percezione troppo semplicistica della nostra società in casi come quello descritto.
Da questo punto di vista, il recupero morale di vittima e condannato viene messo al centro della discussione per evitare tanto l’applicazione di una propria proiezione di ciò che è giusto quanto il pieno reintegro dei protagonisti nella vita di tutti i giorni.
Proprio una nuova prospettiva delle due figure andrebbe a colmare un vuoto che, pur essendo meno considerato dall’ambito giuridico, permetterebbe un reale recupero del detenuto – così come disciplianto dalla nostra Costituzione all’art. 27 – e una ripresa personale per chi, essendo vittima del reato, è stato abbandonato a sè stesso con in mano solamente la pronuncia del giudice come ricompensa.