Anna è un’inviata di guerra, coraggiosa e tenace. Vive a Nairobi, ama l’Africa, crede di conoscerla e poterla raccontare. Una vita di certezze e fragilità, l’amore per due uomini, un lavoro che sente sempre meno autentico. Sarà Mercy, la sua stravagante domestica africana, a condurla in un altro viaggio verso la verità. Il mio cuore riposava sul suo di Lara Santoro (edizioni e/o), giornalista italiana che scrive in inglese, svela un mondo di umanità dove alla miseria si contrappone la speranza. Occhi scuri, vivacissimi, l’accento romano che le è rimasto nonostante abbia lasciato l’Italia quasi venti anni fa, Lara Santoro, 42 anni, ci dice di scrivere per affetto e nostalgia.
Perché ha scritto un romanzo
per raccontare l’Africa,
non le bastava il linguaggio
giornalistico?
Come Anna ho fatto la giornalista
in Africa per Newsweek
e il Science Christian Monitor,
come lei ho amato due uomini,
uno di essi è morto in guerra
nella Sierra Leone, l’altro è
il padre di mia figlia. Ci ho
messo quattro anni per scrivere
il libro, dopo tre ne ho
buttato via più della metà e ho
cominciato a parlare di Mercy,
la protagonista africana. Ha
preso spazio, è emersa dentro
di me, è stato come concludere qualcosa
iniziato dieci anni prima, quando accettai
il mio incarico a Nairobi.
Mercy induce Anna a guardare l’Africa
con altri occhi. Secondo lei l’uomo
occidentale cosa non riesce a capire?
L’autonomia delle donne africane, di cui
si sa poco, la forza femminile è la forza
del continente. Solo dopo aver lasciato
l’Africa sono riuscita a scrivere di
Mercy. È un’amalgama e una sintesi del
continente stesso.
A chi si è ispirata per la figura del
missionario, padre Anselmo?
Ad Alex Zanotelli, l’ho incontrato nel
1996. Viveva a Korogocho, la baraccopoli
di Nairobi, come tutti i poveri non
aveva acqua, luce, gas, gabinetti, spesso
non aveva neanche da mangiare.
È un santo moderno, di poche parole.
Lo ricordo costantemente assediato da
tutti, non si sottraeva mai a nessuno. Mi
sono ispirata anche al gesuita Anthony
De Mello, del quale ho assorbito tutto
ciò che ha scritto, è un punto di riferimento.
Il suo romanzo denuncia il problema
farmaceutico e la speculazione sull’aids.
Fra i molti mali dell’Africa perché
scegliere questo tema?
È ignorato. Come giornalista che lavorava
in Africa sapevo quanto fosse difficile
piazzare i pezzi sull’aids, nonostante
fosse un massacro quotidiano.
Ovunque andassi non facevo che incontrare
gente che stava morendo. L’aids si
porterà via un quarto della popolazione
africana. Per capire le dimensioni
enormi della tragedia devi starci dentro
come è successo a me. Non sopportavo
la disinvoltura con cui i miei capi trattavano
il tema, mi sono accanita. Ogni
volta che andavo a fare un reportage proponevo
anche un piccolo pezzo sull’aids.
Se riuscissimo a descrivere le dimensioni
della strage forse cambierebbe
qualcosa. A quindici anni dalla loro invenzione,
solo un africano sieropositivo
su quattro ha accesso ai farmaci "anti
retro virali". È uno scandalo. Negli Stati
Uniti ogni sieropositivo è curato, perché
in Africa no?
Perché non c’è mai stata una reale
informazione sull’aids?
La maggior parte dei governi
africani non ha avuto né interesse,
né il coraggio, né il sostegno
economico per informare.
L’aids veniva chiamato la "malattia
magra", era l’unica cosa
che si sapesse sul virus. Alcuni
costumi africani antichi
aiutano la diffusione del male,
il cognato eredita la moglie
del fratello morto anche se è
morto di aids.
C’è lo stupro, la violenza, i
bambini che nascono sieropositivi
da mamme affette dal virus
in occidente si convertono
in sieronegativi non prendendo
il latte della madre, ma
i bambini africani non possono
nutrirsi d’altro.
Cosa ama maggiormente degli
africani?
Le risate, noi non siamo più in grado di
ridere di ridere così. Ho visto ridere donne
e bambini nei campi profughi del Sudan.
Un sondaggio realizzato lo scorso anno
in Italia ha fatto emergere la grande
disinformazione sull’Africa nei
nostri media. Come se lo spiega?
Credo che se le stesse domande fossero
state fatte in America avrebbero risposto
allo stesso modo. In Inghilterra
parlano
del Kenia perché è un’ex-colonia,
la stessa cosa succede in Francia.
Per tutto il mondo l’Africa è un buco nero,
difficile da immaginare realmente:
grandi folle di gente che ha fame.
Non se ne parla finché i problemi dell’Africa
non bussano alla nostra porta.
Non vogliamo confrontarci con ciò accade
finché possiamo evitarlo.
Come Anna, molti dei suoi reportage
sono stati fatti in zone di pericolo…
Con la nascita di mia figlia Gaia, otto
anni fa, ho capito che dovevo cambiare.
Il giorno del suo primo compleanno
ero a Mogadiscio, ho corso un grave rischio.
Dovevo smettere per lei.
Il mio capo, che ha cinque figli, non si
spostava mai e mandava sempre me, per
questo abbiamo litigato. È stata l’occasione
per lasciare quel tipo di giornalismo,
iniziare il romanzo e una nuova
vita.
Dove vive?
A Taos, nel New Mexico. Sembra l’Africa,
ma è negli Stati Uniti.
Ha gli stessi cieli sconfinati, una luce
bellissima, è nell’alto deserto con crepe
nella terra, però c’è il telefono, internet,
l’acqua corrente. È ai piedi di una montagna
ritenuta sacra dagli indiani, su cui
i bianchi non possono mettere piede.