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Scrivere, ma prima vivere

Autore: Caterina Della Torre
Testata: Dol's Magazine
Data: 28 maggio 2013

Elisabetta Bucciarelli,  milanese che ha vissuto  durante gli anni delle rivoluzioni femministe e delle lotte studentesche. Sposata molto giovane con un uomo bellissimo. Un figlio, Francesco Lupo, che porta nel suo nome una storia. Scrittrice, sceneggiatrice, ricamatrice di parole, sempre alla ricerca di quelle giuste.

Che formazione hai avuto?
La formazione vera, quella che mi resta, la devo agli insegnanti del liceo scientifico e agli incontri (tanti) avvenuti durante la frequenza della Scuola d’Arte Drammatica del Piccolo Teatro, ora Civica Scuola d’arte Drammatica Paolo Grassi, dove mi sono diplomata in drammaturgia.

Da quanto tempo scrivi Elisabetta? Ti piace più lavorare per le sceneggiature o per iromanzi?
Scrivo da quando ho compiuto vent’anni. Scrivo per professione da meno di un decennio. Ogni storia e ogni contenuto ha la sua forma precisa di scrittura. Le emozioni più forti e persistenti le ho avute e continuo ad averle con il teatro. I romanzi sono compagni di strada. Le sceneggiature mi fanno arrabbiare.

Hai scritto molti libri ed ognuno è nella sua fattispecie, diverso. Ed anche i titoli sono accattivanti.
E’ vero sono tutti diversi, pur avendo una protagonista seriale, Maria Dolores Vergani, i miei lavori seguono un percorso. Contraggo e distendo, cerco parole che siano precise e nuove ogni volta. Forse non sfuggo mai da una certa visione angolare e crepuscolare del mondo ma ho provato e, mi dicono, sono riuscita, anche a far ridere i lettori.

Scelta tua o rispecchiano un contenuto atipico? Quanto è importante un titolo per la promozione di un libro?
I titoli come la copertina devono essere efficaci, ma dopo aver affermato questo non esiste una regola per renderli tali. Esistono le mode, le parole chiave, i colori, le forme… ma l’alchimia del buon risultato è un mistero, sempre. I titoli dei miei libri sono nati quasi tutti da proposte mie. Ritoccati, magari, fino ad ora mai imposti.

Quale di tuoi scritti ti piace di più? Tra di loro c’è un legame?
 Hai pubblicato tra i saggi Io sono quello che scrivo, la scrittura come atto terapeutico e Le professioni della scrittura. Credi molto nella scrittura e come ci sei arrivata?
Sono molto legata a Corpi di scarto (Verdenero, Edizioni Ambiente), è un libro che parla di adolescenti e di verità. Mi piace per gli aspetti visionari che mi sono concessa, per i contenuti fortemente sociali e legati al corpo delle donne (mio tema da sempre) e perché viene apprezzato dai ragazzi delle medie inferiori e superiori che mi chiamano nelle scuole a parlarne. Anche Dritto al cuore, la nuova creatura pubblicata da E/O, ha due protagonisti giovani Ariel e Pietro, ma racconta anche il mondo della saggezza dei vecchi, donne e uomini che vivono in un villaggio a duemila metri di altitudine, dove esistono animali, boschi, rocce e ghiacciai, simboli e mitologie impressi nella menoria collettiva e che tutti, appunto, ci portiamo nel cuore.

Alla scrittura sono arrivata naturalmente, grazie a una donna severa che insegnava latino e italiano al liceo, capace di consolidare e sostenere i miei tentativi di raccontare. Poi alla pubblicazione sono arrivata tardi. Ho vissuto un po’, metabolizzato le esperienze più forti, tenuto le storie con me e poi ho scritto e spedito (come si faceva una volta, quando il web non concedeva visibilità). Quindi ho esercitato l’arte dell’attesa, uno dei miei punti di forza. Comunque nella mia vita ho sempre lavorato solo con le parole, in qualsiasi forma.

In questo momento sto componendo un nuovo saggio sulle parole proprio perché credo fortemente nel potere del linguaggio. Cambiare parole, trovare parole nuove, chiamare le cose con il loro giusto nome, restituire dignità ad ogni singolo vocabolo e soprattutto evitare gli slogan. Questo è il mio fare quotidiano, tra difficoltà e limiti personali, ovviamente. Il mio primo saggio l’ho scritto che avevo meno di trent’anni e un’intuizione semplice ma forte, che la scrittura potesse servire a stare meglio. Conducevo da tempo laboratori teatrali con pazienti psicotici cronici e pazienti con disabilità gravi, usavo la scrittura e mi ero accorta che per molti di loro stava diventando uno strumento privilegiato di espressione. Ora a distanza di quasi trent’anni proverò a raccontare cosa è stata per me, attraverso letture e persone incontrate, libri scritti e soprattutto tutti i corsi che ho condotto e sto conducendo di Scrittura espressiva (e non solo creativa).

Al giorno d’oggi scrivere può essere considerato un mestiere?
Scrivere è un mestiere. E’ impegno e fatica. Anche bisogno fisico o necessità psicologica. La sua applicazione, i contenuti e la forma ne fanno anche un’Arte, talvolta, non sempre e non per tutti.

Ci parli dell’ultimo salone del libro a Torino? Cosa ti è piaciuto e cosa no?
Il Salone è un luogo altro. Quando decido di andarci, come quest’anno, devo avere più di un motivo. Comprare libri (ho acqusitato solo libri di poesie, tra cui un paio di Patrizia Cavalli e uno di Mariangela Gualtieri, molto belli tutti e tre), ascoltare autori o interventi (la moglie di Bolano che ha letto degli inediti del marito e una lettura scenica della Comencini), farmi intervistare da qualche amica radiofonica, presentare libri di altri autori (quest’anno più di uno). Ho conosciuto il mio editor (appena finito l’editing a Dritto al cuore) Claudio Ceciarelli e i miei nuovi editori Sandra e Sandro Ferri e tutto lo staff E/O.
Poi ho rivisto tanti conoscenti scrittori e qualche amico. Questo è il bello del Salone, tanto mi pare.
Non sono contenta quando mi accorgo, senza volerlo, della percentuale di spazio e di tempo concesso a chi di mestiere non scrive e fa altro. La volontà di far ridere a tutti i costi anche con le volgarità. Troppi comici (che non fanno ridere, appunto), troppi calciatori, troppi politici. I musiscisti che scrivono invece, mi piacciono molto. Portano il ritmo nelle pagine.

Cosa consiglieresti ad un giovane a cui piace scrivere?
Di continuare a scrivere ma prima, di vivere.